Huddle’n Music: Los Angeles, cosa si muove dietro le stelle?
Non tutti nello sport americano hanno la possibilità di vivere la bellezza di un ciclo vincente legato alla scena della propria città. Di assistere ai trionfi di una squadra che rappresenti i colori cittadini in una disciplina specifica, o ancor meglio in tutte.
Nella “città degli angeli”, Los Angeles, ci sono riusciti attraverso un percorso lungo e tortuoso, una scalata alle stelle che non ha fatto esclusioni tra le grandi organizzazioni dei quattro sport più importanti.
Questa idea di ciclo dorato si è avviata nel 2014 in NHL, in quello che viene considerato lo sport meno importante dei four major; i Los Angeles Kings non hanno avuto pietà dei rivali di New York, sponda Rangers, e hanno ipotecato la Stanley Cup già nelle prime tre uscite vincendole tutte. Gara 4 ha assegnato il “gol della bandiera” per i Rangers e in Gara 5 la serie si è chiusa col trionfo dei Kings al Madison Square Garden con una marcatura celeste all’overtime. Prima flag verde sulle quattro caselle!
Da quel momento ci sono voluti 6 anni per spuntare il secondo rettangolino; nel 2020, durante la pandemia, ci hanno pensato i Los Angeles Lakers di LeBron James e Anthony Davis a riportare il Larry O’Brien Championship Trophy in città. Il 17° titolo NBA per quella che nel basketball è riconosciuta come The America’s Team.
Stesso anno stessa sorte dei Lakers per i Los Angeles Dodgers. Con la loro corazzata di campioni i Dodgers sono i signori incontrastati della Major League Baeball moderna ma, allo stesso tempo, sono incapaci di portare a casa il successo alle World Series fino al 2020 nonostante le due apparizioni in finale del 2017 e 2018. Terza W in cassaforte.
Infine è il turno dei Rams, i quali a Los Angeles godono di molto più prestigio rispetto ai Chargers (un pò come i Dodgers sugli Angeles o i Lakers sui Clippers, eterni incompiuti). I Rams di McVay sono una formazione temibile, agguerrita, ben assemblata e a loro modo innovativa. I Rams hanno sempre lavorato su aspetti fondamentali del gioco, lame a doppio taglio come quelle di possedere una difesa fisica e dominante e una linea di attacco che entra in campo rolla qualsiasi cosa gli si presenti davanti, come pochi sanno fare. Dettagli che non possono essere lasciati al caso. Questa organizzazione ha creato scenari evidenziabili e lasciato, a mio avviso, un segno molto importante nel football americano degli anni che si accavallano al cambio di decade 2020.
Dopo aver fallito il colpaccio nel Super Bowl del 2018, arginati dall’impressionante difesa che Bill Belichick ha architettato per i suoi Patriots (sulle basi della difesa dei Bears di Vic Fangio nello stesso anno), i Rams hanno rimesso insieme i cocci e provato a riaccendere la macchina per puntare ad un nuovo obiettivo: il ritorno al Super Bowl, ma questa volta per vincerlo!
Ci sono riusciti, con il successo casalingo sebbene da “ospiti” del 13 febbraio 2022 contro i Cincinnati Bengals. La quarta e ultima casella è stata flaggata: le squadre di LA hanno tronfato in hockey, basketball, baseball e football. Un capolavoro di rara bellezza, un ciclo che fa invidia al resto della nazione e alle molteplici fanbase.
Tutte queste franchigie sono accomunate da un minimo comun denominatore, ossia la politica super aggressiva dei loro front office.
In tante occasioni, infatti, i dirigenti di queste squadre hanno giocato d’azzardo esponendosi con i conti e rischiando di compromettere il futuro delle loro squadre dopo aver ceduto innumerevoli scelte ai draft in cambio del big player del momento. I vari Mookie Betts, AD o Jalen Ramsey che si voglia, però, hanno pagato i dividendi regalando almeno un titolo nazionale alle rispettive organizzazioni. Politiche aggressive che ammassano campioni come stelle nel cielo con uno stile da Play Station, manovre societarie che sono risultate vincenti e quanti oggi copieranno l’andazzo riuscendo a chiudere il cerchio nel modo corretto? Dura a dirsi, ma forse pochi…
Cooper Kupp e Matthew Stafford sono i simboli assoluti di questi possenti Rams 2021.
Lo sono con il benestare della squadra e dei tifosi, lo sono per la critica, per quelli più esperti e per quelli meno. Lo sono per senso di giustizia e di rivalsa nei confronti della vita; uno perchè dopo essersi spaccato una gamba è riuscito a tornare a correre più veloce del vento, l’altro perchè dopo aver navigato nei bassifondi troppo a lungo ha finalmente scoperto le vette della gloria. From the ground up.
Stafford è un emblema, uno che sin dagli albori ha sempre conosciuto il suo sistema, le potenzialità del suo braccio e tutto quello che avrebbe potuto fare. Peccato che i Detroit Lions siano famosi per sputtanare qualsiasi cosa esista di buono in questo mondo, Barry Sanders insegna. Change my mind!
La semantica del Super Bowl LVI vinto dai Rams è destinata a sfondare tutti i limiti fin qui concepiti, perchè se è vero che come tutti gli altri team della città i campioni e i corrispettivi salari ormai non si contavano più, è altrettanto vero che il cammino dei Rams è stato ben più complesso rispetto a quello delle altre scene sportive losangeline. Fosse solo per le pesanti zavorre mentali e per i fantasmi che aleggiavano nelle menti di alcuni dei loro giocatori:
“Stafford è un eterno perdente, dal 2009 al 2021 ha giocato 3 partite ai playoff perdendole tutte. Dove deve andare? Ormai è destabilizzato psicologicamente dalle infinite umiliazioni subite ai Lions”.
Oppure: “Sean McVay è troppo giovane per vincere in NFL, si è già visto nel 2018” o “Kupp non tornerà mai più quello di prima!” E ancora: “OBJ è una trsta di c—o, non è un vero professionista. Non vincerà mai perchè è una prima donna”.
(Du palle con sta storia della Prima Donna!) Ecco, ad esempio mettiamo lui sotto la lente.
Odell Beckham Jr., dopo il first half del Super Bowl e prima dell’infortunio, era in ritmo per strappare l’MVP della partita poi accreditato a Kupp; OBJ, per i Rams, su quel maledetto campo ci ha lasciato una gamba e forse il resto della sua carriera… OBJ si è comportato da guerriero e la sua professionalità a Los Angeles non è venuta meno. E anche lì, qualcuno, al drop del pallone su que secondo e lungo, mentre gli saltavano i legamenti del ginocchio, ha pensato che stesse simulando per essersi fatto sfuggire una presa semplicissima. Los Angeles è un luogo magnifico, tanto quanto è brutale il peso mediatico della sua aspettativa.
In diverse circostanze la sotria insegna che vincere a Los Angeles è facile, in altre che è pressochè impossibile. Come nel caso dei Rams, che per trionfare nel 2021 hanno dovuto fare il triplo della fatica e questo aspetto gli va riconosciuto, perchè limitarsi a parlare di grandi nomi e di assegni faraonici elargiti per riempire i conti correnti dei protagonisti sarebbe troppo superficiale.
Guardare oltre l’ovvio aiuta a comprendere meglio, proprio come nel caso di “Mr. Morale & the Big Steppers”, il nuovo album di Kendrick Lamar uscito nel 2022.
Lamar è ormai da tempo noto come un “maestro della narrazione”; i suoi testi sono caratterizzati da un flusso agile e abile, un pò come nel caso di Eminem, che di Lamar è una delle fonti di ispirazioni più profonde per via della sua aggressività. Notoriamente la scrittura di Lamar include riferimenti al razzismo, all’empowerment degli afro-americani e all’ingiustizia sociale, tematiche che nel contesto del rap si presentano sempre con estrema puntualità. Ma la scrittura di Kendrick Lamar è stata anche definita confessionale e controversa.
L’escalation del nativo di Compton, California, è storia del recente passato. Una storia iniziata nei primi anni Duemila sotto lo pseudonimo di K. Dot, quando Kendrick aveva solo 16 anni, e culminata tra il 2014 e il 2016 dopo la pubblicazione del celebre “To Pimp a Butterfly”. Questo album, prodotto dalla TDE (Top Dawg Entertainment) nel 2015, ha proiettato Lamar nella leggenda facendolo diventare il rapper in attività più importante del mondo.
Da quel momento sono passati 5 lunghi anni. Mezza decade in cui il prodigio del rap è semiscomparso, quantomeno in temini di produzioni. Certo le difficoltà del dover sostenere il peso della critica mondiale con una nuova pubblicazione nei panni del primo rapper ad aver vinto un premio Pulitzer a soli 30 anni non è cosa semplice; il mondo discografico vuole, pretende il massimo. Crea aspettative oltre l’immaginabile, alimenta la domanda e ne pompa ogni dettaglio per poi battere il cassetto. Cassetto che in un caso come quello di Lamar fa surriscaldare le macchinette contabanconote.
Il king del rap contemporaneo ritorna nel 2022, dopo quei milleottocentocinquantacinque giorni che aprono il dialogo nel suo nuovo album.
In mezzo c’è passato di tutto: guerra, Pandemia, Black Lives Matter, cambi ai vertici politici, crisi economiche e sociali, nonchè climatiche. In tutto questo Lamar è rimasto in un angolo senza dire la sua, raccogliendo i pensieri, ponderandoli, mentre guardava il sistema andare a rotoli. Lamar è rimasto con la sua famiglia, riuscendo finalmente ad incrociare il suo sguardo con lo specchio senza dover girer la testa da un’altra parte. Si è pentito di fatti relativi al suo passato, ha lavorato su se stesso e autoanalizzato la sua posizione nei confronti di tutto ciò che lo circonda. Da qui, da questi delicatissimi presupposti, nasce l’album “Mr. Morale & the Big Steppers”.
Già dalla copertina del disco, in cui Kendrick indossa una corona di spine, il rapper californiano si fa baluardo del mondo hip hop caricando sulla propria testa il peso delle critiche rivolte al suo ambiente. Questo lavoro è di livello tecnico superiore, affilato come uno shogun, ma non esattamente il genere di disco che ti induce a salvare una o più tracce sulla playlist del caso da ascoltare durante la quotidianità. Non ci sono hits, e questo è un dato di fatto. Le canzoni sono difficiili da ascoltare e forse anche da apprezzare perchè l’introspettiva dei testi e delle sonorità abbinate è molto personale.
Tra i 19 brani del nuovo LP di Lamar, ho scelto “Rich Spirit” perchè ci sono alcuni aspetti legati alla moralità che colpiscono dritti nel segno. Lamar è uno dei più grandi poeti e interpreti del nostro tempo, il suo tocco è soffice tanto quanto brutale. Una carezza velenosa consapevole delle sue responsabilità, che lascia il segno e nonostante tutto si prepara a pagare il conto dei danni rimasti alle sue spalle.